Le interviste di Oltreconfine
Simone Perotti ¤ www.simoneperotti.com

Controcorrente... sull'onda della libertà

di Mariavittoria Spina

in Letteratura&Psiche (Oltreconfine - n° 5 - Mag/Giu 2012)
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Negli anni la tua esperienza marinara si è decisamente intensificata; dal desiderio alla pratica di vivere il mare, come è cambiato il tuo rapporto con il grande blu e in che modo ti ha aiutato a riscoprirti?
Io sono figlio di una stirpe di genovesi. I mie due nonni erano imbarcati entrambi. È una questione di sangue. Anche per questo, ma non solo per questo, mi sento e sono un uomo del Mediterraneo, cosa piuttosto densa di significati. Noi del Mediterraneo siamo uomini globalizzati nel senso migliore del termine. Viviamo il “meticciato culturale” non come una circostanza straordinaria o estemporanea, ma come l’unica realtà. La contaminazione religiosa, etnica, culturale, del costume, delle relazioni, ci accompagna fin dalla nascita. Un tempo parlavamo il Sabir, la lingua comune a tutti i naviganti, mescolanza di occitano, genovese, veneziano, spagnolo, latino, greco, giudaico. Il mare (che i greci chiamavano in molti modi a seconda del suo significato culturale e fisico: thalassa, pontos, pelagos...) per noi è un media, un palcoscenico, un libro. Racconta storie comuni, consente la comunicazione tra popoli costieri contrapposti eppure legati, fa da altare al quale accompagniamo le nostre sorelle quando si sposano. Un uomo del Mediterraneo è questo che sente, quando guarda il mare. È questo che percepisce quando naviga. Di questo e di molto altro mi riempio orecchie, occhi, mente, cuore quando sono a bordo. Da Milano, dalla città, ero più lontano, più slegato da questo mondo di significati. Era come dimenticare la mia provenienza, come chiudere gli occhi sulla mia rotta. Un uomo del Mediterraneo non dovrebbe mai dimenticare chi è, qual è il suo orizzonte. Quando si illude di essere solo un europeo, non può che trovare alienazione e disincanto. Per chi volesse approfondire il tema, basta leggere Jean-Claude Izzo, che non a caso era di Marsiglia.

Tra i tanti inviti alla consapevolezza che hai fatto ricorre spesso quello relativo al ripensare i luoghi dove vivere. Ciò include anche il modo in cui vivere i luoghi dell'anima, il rapporto con se stessi, con il macro e microcosmo, e se sì, in quale modo?
La società moderna ci ha portati dalle campagne alle industrie, e quella contemporanea dalle industrie agli uffici. Non sappiamo più che tempo c’è fuori dalle quattro mura dove passiamo tutta la nostra giornata. Che piova, soffi il vento, che quel vento sia Scirocco o Maestrale, la cosa non ci tocca, non ci riguarda. Siamo, in un certo senso, svincolati dalla meteorologia, dagli agenti naturali, e credo che in questo risieda parte della nostra alienazione. Pensa che nell’antica Repubblica di Ragusa, Dubrovnik, il Senato aveva emanato una legge per impedire di prendere decisioni importanti per la collettività nei giorni di Jugo, cioè di Scirocco, perché è umido, nuvoloso, la gente è malmostosa, non è lucida. Vivevano a contatto con la natura assai più di noi. Ora, io penso che i viaggi siano i viaggiatori, come diceva Pessoa, e cioè che siamo noi a determinare i luoghi e non il contrario. Tuttavia, un uomo che cerchi l’equilibrio, che lo persegua con metodo, con dedizione, non può non constatare che solitudine, mancanza di rumore, natura, influiscono come uno stimolo, positivo o negativo, sul proprio percorso. Io ho cercato di abitare e vivere in luoghi con una caratteristica positiva sul mio mondo interiore, non per stare bene, ma stando già bene... per stare meglio. La mia vita adesso, sia quando sono in mare che quando sono sulla terraferma, è scandita dal vento, dall’umidità, dalla pressione, dalla temperatura. Anche nella mia casa, che è di pietra, io trovo un riparo parziale. Nelle case di cemento armato non sentiamo se sta piovendo, dobbiamo guardare fuori. Io sento subito il frastuono dell’acqua, o i colpi del vento, che sembrano voler portare via il tetto. Temo, anche, quando il tempo è brutto. Spero, anche, quando il tempo migliora. Mi preoccupo per l’orto, gioisco quando ho seminato e la temperatura sale. Sono piccole cose, me ne rendo conto, ma il fatto che una parte della mia sensibilità sia occupata da questo invece che da problemi inessenziali o beghe promiscue, mi aiuta molto a vivere. E a creare. Anche la scrittura risente di questo maggior contatto col mondo naturale.

Cosa significa, nella tua esperienza personale, meditare?
La meditazione è una delle conquiste della mia nuova vita. Per esercitarla occorre tempo, silenzio, solitudine, tre ingredienti di cui ero praticamente privo in città. Oggi non saprei vivere serenamente senza queste tre componenti essenziali. Un uomo in equilibrio deve poter vivere almeno metà del suo tempo da solo, potendo operare, adoperarsi, dentro e fuori, seguendo il filo di una sua personale meditazione. Non è necessario recitare mantra o svolgere pratiche codificate. Io ad esempio medito lavorando fisicamente, stancandomi, facendo forza sui muscoli quando taglio legna, mi arrampico sull’albero della barca, unisco materiali per le mie sculture. In queste pratiche, apparentemente artigianali e fisiche, in realtà psicologiche e morali, mi riconnetto con me stesso, ritrovo gli equilibri, provo a modificarli. La scrittura, lo studio, che apparentemente sono la mia attività intellettuale, costituiscono il terreno di applicazione della vita interiore. Non avrei nulla da dire, nulla da fare e progettare, senza quei silenzi, senza meditare. A volte mi chiedo come abbia potuto vivere tutto sommato dignitosamente senza tempi e modi che oggi considero essenziali.

(continua)

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